Menzione Speciale Tragos 2023

Menzione Speciale Tragos 2023

FRANCHENSTAIN

Alcune riflessioni su questo ultimo lavoro…

 Diciotto anni fa scelsi di affrontare la creatura di Mary Shelley – “Frankenstein” – accogliendo il suo impianto narrativo e mettendo in scena il suo romanzo: un uomo che rifiuta la morte, in una sfida indecente, crea da essa stessa la vita abbandonandola poi al suo misero destino…  La drammaturgia di allora, in una sorta di delirio schizofrenico, contemplò il padre e il figlio come due facce di una stessa medaglia; e Frankenstein (padre) e Frankenstain (figlio) si sbranavano attraverso un monologo in due tempi in cui padre e figlio, appunto, si distruggevano attraverso lo smembramento del corpo dell’attore che diventava un vero e proprio campo di battaglia.…

 Oggi, 18 anni dopo, ho scelto di rivedere questa icona gigantesca e riconsiderare la figura del “mostro” (dal latino: monstrum, prodigio, cosa straordinaria) coinvolgendola in un altro viaggio, “un viaggio in solitaria”, un viaggio qui e ora: hic et nunc; un viaggio in cui della figura di Victor (del padre), non v’è più alcuna traccia.

L’impulso è stato quello di dedicarmi al risultato di certe scelte, di certe nevrosi, di certe cecità, e lavorare, quindi, intorno alla condizione della solitudine che ne scaturisce e che, più di tutto, caratterizza la figura del “Frankenstein figlio”… Una solitudine (apparentemente) senza soluzione che costringe un uomo a dover apprendere, in totale isolamento, come funziona il mondo e trangugiare, senza possibilità di appello,  le sue regole spietate e i suoi ottusi paradigmi. Una solitudine che lo costringe a procedere senza la possibilità di un confronto, senza la possibilità di stabilire un contatto umano, e imparare, e apprendere, senza l’esperienza di una relazione umana alla pari… Per scoprire, però, (e qui il “Frankensein” di Mary Shelley si trasforma nel “Franchenstain” di Replicante: il camminante, che evolve e si incammina, come suggerisce il poeta Keats, nella “valle in cui fare anima”) che il mondo, forse, esiste anche senza di noi e/o malgrado noi; e la poesia e la bellezza del mondo diventano, o possono diventare, il luogo e la modalità in cui e con cui coltivare un nuovo sguardo capace di curare ogni ferita e farsi antidoto al veleno di ogni paura. Il mondo ci fa ammalare ma – anche – ci guarisce.

L’anima non si spaventa mai. È la mente che cade di panico in panico. Ecco perché rafforzare lo sguardo dell’anima e non della mente; e questo Franchenstain, a differenza di quello della Shelley, si salva perché non smette di essere bambino nella sua modalità con cui osservare il mondo e raccontarselo.

Il desiderio che ha mosso questo lavoro è stato quello di indagare il processo di apprendimento come fosse una solitaria preghiera. Una preghiera che sboccia dall’incanto che scaturisce a sua volta dalla contemplazione del mondo, e che rischia di appassire come un fiore trascurato a causa dello sgomento provocato da un rifiuto costante perpetuato nei confronti di un soggetto discriminato “per principio”; una preghiera disposta a trasformarsi in bestemmia proprio per giungere fino all’essenza più profonda di se stessa e lì ritrovarsi e salvarsi.

Ho scelto di iniziare con una citazione fotografica (purtroppo famosissima): quella del bambino di Bodrum che giace conficcato nella sabbia di una spiaggia in Turchia, perché rifiutato – a priori – da un mondo, il nostro, che aveva scelto, senza appello, che non ci sarebbe stato posto per lui. Ho scelto di condividere, per l’inizio di quest’azione teatrale, lo stesso luogo di partenza: una spiaggia. Una spiaggia in cui risvegliarsi dalla morte, però, e tentare di verificare se davvero sia possibile confermare che da noi proprio non ci sia posto per qualcuno.

Franchenstain (di Replicante) è tutte le volte che qualcuno arriva e non è il benvenuto. Tutte le volte che sfugge il senso del nostro essere qui e ci assale lo sgomento. Ma, a differenza di quello di Mery Shelley, il nostro Franchenstain sceglie di non cristallizzarsi in quel rifiuto, in quello sgomento, ma di trarre da quel rifiuto, e da quello sgomento la forza necessaria per camminare avanti cambiando, non solo direzione, ma obiettivo e fare del mondo “la valle in cui fare anima”.

La drammaturgia si affida all’energia del monologo, un monologo in cui le cicatrici del “mostro” non stanno sul corpo dell’attore, ma sulla parola che, come sguardo sul mondo, si tira dietro il tormento di una solitudine e le sue sbandate. L’installazione virtuale di Andrea Carlotto è azione solidale e dinamica a questo viaggio dell’anima in cerca di una patria in cui tornare con un tesoro da restituire attraverso talenti che ha tentato di far fruttare. È mondo, è vita che pulsa nel cuore, e che tracima sul pavimento del teatro (un piccolo schermo bianco), come un’emorragia di visioni.

Andrea Damarco