NESSUNO

azione teatrale rinchiusa per riconsiderare il viaggio

 

Nel 2014, l’esperienza del teatro in carcere è proseguita con un nuovo viaggio…

Da un lato, sono stati riproposti gli interventi di letture sceniche (“Ti dico un libro – open”, che dal 2012 la Compagnia propone nel carcere aostano), dall’altro, sulla scia dell’entusiasmo del progetto “Ne vale la pena” (in cui, nel 2013, è stato allestito uno spettacolo con i detenuti a partire dal processo di Socrate attraverso la rilettura dell’“Apologia” e del Fedone” di Platone),  è iniziato un ciclo di incontri nel corso del quale i detenuti sono stati invitati (solo a patto che lo desiderassero) a raccontare e poi a scrivere le loro storie. O, meglio, storie che, in un modo o nell’altro, anche – e soprattutto – in un’auspicabile finzione letteraria, potessero in qualche modo raccontarli.

Gli uomini incarcerati hanno accolto questo invito e hanno scritto storie potenti…

Storie di corpi in viaggio e storie di viaggi di corpi…

E allora ci è venuta voglia di trasformarli in un’azione teatrale…

Il tema su cui lavorare è arrivato da sé: avremmo affrontato il “viaggio”. Nella sua accezione più ampia.

Mattinate intense sono arrivate come un fiume in piena: lunghe discussioni sul senso del “rimanere” e del “partire”. Abbiamo discusso la differenza tra “diario/resoconto” e “narrazione”.

Siamo scivolati sul delicato argomento che intende stabilire la differenza tra “dire” e “riferire”.

Poi ci siamo divertiti a verificare quanto sia diversa la “parola detta” dalla “parola scritta”.

Ci siamo impantanati più volte nel tentativo di convincerci reciprocamente di essere, ciascuno di volta in volta, l’unico detentore della “verità”.

Poi abbiamo capito che è meglio spiegare la propria posizione: il desiderio di convincere è un brutto vizio degli uomini ed è solo una perdita di tempo e di energia.

Abbiamo parlato di donne e di sesso. Di posti indimenticabili e di posti da dimenticare.

Abbiamo parlato di processi, di reati (i loro), di differenza tra lealtà e omertà, tra “infame” e “collaboratore”, e abbiamo verificato che, di nuovo, la differenza è data dal posto in cui piazziamo l’obiettivo della “macchina” con cui guardiamo la realtà e tutto, tutto è il frutto di un’angolazione, quella da cui osserviamo il mondo…

Abbiamo parlato di Pirandello, allora, di Foscolo e dell’esigenza di non morire subito, ma di essere ricordati ancora per qualche tempo attraverso le cose che lasciamo e grazie alle quali verremo, appunto, ricordati.

Abbiamo ragionato su quale sia “il gesto” con cui vorremmo, se possibile, essere ricordati. Siamo arrivati a Leopardi, dunque, e al potere che abbiamo di “farci ginestra” per gli altri. E poi “l’infinito”, che per gli uomini incarcerati è questo muro alto e terribile oltre il quale c’è il mondo in cui faticano a trovare un posto dignitoso; figuriamoci entusiasmante.

Abbiamo anche riso. Di cose serie e di cose futili. Dei pregi e dei difetti di ciascuno. Difetti che, mentre nasce un’amicizia, diventano importanti e cominci ad amarli e capisci che forse è proprio grazie a quelli se va a finire che una persona ti piace più di un’altra.

E, intanto ci siamo accorti che anche gli agenti di custodia e il personale del penitenziario (non tutti, si intende, ma una parte di essi, sì) partecipava con sempre maggiore disponibilità a questi momenti. A questi lunedì mattina.

Come?

Beh, intanto facendoci trovare la prolunga già pronta per collegare il lettore cd, facendo il possibile per non interrompere nel bel mezzo di una discussione, evitando di parlare a voce alta mentre ragionavamo, accogliendomi con un sorriso quando arrivavo alle 9 del mattino, lasciando che i detenuti che lavoravano nella stanza accanto al cortile dove provavamo potessero osservare le prove e metterci su un caffè verso le 10… seguendo le prove con emozione e partecipando con un silenzio carico di rispetto e di ammirazione di fronte agli explois di qualcuno: di G., ad esempio, della sua ironia e del suo monologo irresistibile costruito sulla sua “tournée nelle carceri di tutto il mondo”.

E intanto tutto ciò che veniva detto e pensato, tutto ciò che succedeva, e anche quanto non succedeva, veniva registrato su grandi fogli di carta su cui, a poco a poco, apparivano i segni di una discussione in movimento, di una condivisione di idee che restavano impigliate a graffiare le grandi superfici bianche che lentamente diventavano rovi di pensieri da cui trarre, in seguito, la sintesi di un primo viaggio: quello che stava conducendo ciascuno di noi alla scoperta dell’altro, a prescindere dalla sua storia penale e giudiziaria. A prescindere dal passato.

In cerca di uomini che si raccontassero, e non di fatti che li inchiodassero, siamo arrivati al concetto di “valigia”, intesa come spazio che contiene il “definitivo/provvisorio” necessario all’assetto esistenziale di ogni persona nelle varie fasi della propria vita: ad ogni meta corrisponde un “carico” che non coincide necessariamente con il “viaggio” successivo. Dobbiamo imparare a “riempire” e “svuotare” di continuo le nostre “valige”… noi stessi, insomma. Lasciare andare le cose di continuo, per lasciar spazio a quelle nuove. Che fatica! Anche per gli uomini liberi.

Abbiamo cercato di selezionare dalle vite precedenti (quelle, insomma, antecedenti la reclusione degli “attori”), per gioco, si intende (ma il gioco, quando in ballo ci sono i “duri”, è roba seria) le cose che avrebbero scelto di portarsi dietro in un ipotetico viaggio da cui, probabilmente, non avrebbero più fatto ritorno. Questa ipotesi ha creato, in alcuni, un profondo sgomento…

I., un ragazzo del Gana, si è rifiutato categoricamente di considerare questa eventualità. Abbiamo subito pensato (in tanti, forse in troppi) che fosse una sua impuntatura; poi abbiamo compreso che, a volte, non si chiamano impuntature, ma semplicemente peculiarità (caratterizzate dai meridiani e dai paralleli), quelle che definiscono il patrimonio culturale di cui il mondo è fatto e grazie alle quali possiamo definirci un pianeta ricco di biodiversità.

Il concetto di non ritorno, di irrimediabile separazione, di addio, è un concetto, ahimè, molto presente e molto diffuso in alcuni; inesistente, invece, per molti altri. Per I., ad esempio. Che non ha potuto riempire la sua valigia di niente perché il suo viaggio non era senza ritorno. Punto e basta.

Non posso immaginare di non rivedere mai più il mio villaggio, la faccia della mia gente e di non sentire mai più l’odore della mia casa”. Due mesi dopo, I. è tornato in Gana, in seguito alla propria richiesta di espulsione.

E così lo abbiamo dovuto salutare, spiazzati dal casino che i pensieri possono piantare!

Queste fratture improvvise, questi fuori programma che richiedevano ore di discussioni nel corso delle quali (a volte) avevo la sensazione ci fermassimo, o perdessimo tempo prezioso, erano invece puntuali messaggi che arrivavano da una drammaturgia intenta a nascere e che già stava sviluppando non solo i contenuti e la forma che l’avrebbero definita, ma anche la bellezza selvaggia che l’avrebbero contraddistinta.

Lo spettacolo era partito, come sempre accade, molto prima che qualcuno se ne fosse accorto (io in primis): piano piano tutto era già lì. Ora, bastava solo mettere ordine. Nel senso che bisognava scegliere in quale ordine, o disordine, meglio si poteva sguinzagliare la forza di una narrazione che cominciava a guardare avanti, verso il mare…

Tutti erano pronti a salpare perché ognuno aveva portato un pezzo di mare e anche un pezzo di legno e anche un pezzo di vela.

Ognuno, senza rendersene conto, aveva portato un pezzo di sé e “l’antico viaggiatore incarcerato”, il teatro, era pronto a salpare con questo Odisseo amaro e contemporaneo, incarcerato anch’egli.

Ognuno, temporaneamente lontano da sé e dai suoi problemi, era riuscito a scovare quella parte di sé e dei suoi problemi che in quella dimensione non “mordevano” più, anzi  portavano forza ad un gruppo che lentamente si era formato e si stimava reciprocamente, ed era solidale e tenace perché aveva un obiettivo: lo spettacolo.

Il teatro ha questa grande capacità, quella di permettere agli uomini di com-prendere qualunque verità, perché consente di avvicinarsi a qualsiasi luogo, a qualsiasi dolore, a qualsiasi mistero nel rispetto della sua anima. Il teatro non cerca il vero (almeno, non dovrebbe) perché assetato di autentico. La ricerca della verità è molto imbarazzante, la ricerca dell’autentico mai, perché scava dentro l’uomo non alla ricerca di qualcosa che lo svilisca, o lo assecondi a tutti i costi, ma alla ricerca di qualcosa che lo narri, che lo scuota, che lo offenda, anche, che lo prenda pure a calci, se è il caso. Sì, per sollevarlo in alto però, anche brutalmente, così in alto e così lontano dalla sua condizione attuale e dal gusto incontrollabile della lacrima (e da quel dilagante gusto di farsi i fatti altrui), per renderlo da un lato irraggiungibile, dall’altro intimamente vicino e solidale ad ogni suo simile. E al tempo stesso così in alto da poter vedere infinitamente più lontano ed essere meravigliosamente vicino al Tutto.

È curioso come il teatro funzioni sempre molto bene quando le cose vanno molto male… E, forse, è giusto che sia così. È dalle cose che ci fanno male che possiamo ripartire per trovare quelle che ci faranno del bene. E il teatro obbliga… diciamo, invita a scavare, a faticare, a cercare, nella prudenza di una simulazione, le domande esatte. Cosa non da poco per noi uomini sempre a caccia di risposte.

Sono sempre più convinto che domande poste puntualmente – e onestamente – ci tengono lontani dalla nevrosi di troppe, facili e rassicuranti risposte. Partendo da una risposta tendenzialmente è difficile esimersi dalla tentazione continua di “far tornare i conti”.

Veniamo da una società ammalata di ferie e di vacanze, una società che si era arresa alla domenica, una società che desiderava estendere la festa fino ai confini della decenza. Una società che si era adagiata nel benessere senza chiedersi più niente, se non conferme sulla bontà e sulla legittimità di questa scelta, egoista e infantile, di una vita fatta di diritti. E di oblio.

Ora è tornato il lunedì, e il teatro… beh, lui sembra sia di nuovo tornato necessario.

Almeno in certi ambienti.

Almeno per certe persone.

Sembra essere tornato necessario (povero come sempre ma necessario), come necessari sono gli amici veri: ti ricordi di loro e li cerchi solo quando stai inguaiato…

Necessario come le domande: cominci a portele seriamente quando stai cercando una soluzione perché ti sei rotto i coglioni di soffrire sempre a causa dedlle stesse cose.

E, il teatro, come l’oracolo, non mente, non può mentire. “Perché ciò non è possibile per un dio”.

E gli attori, come la Pizia, traducono il linguaggio del dio.

E il pubblico ha l’occasione di interrogarsi. Se lo vuole.

Il teatro non mente: parla a tutti e di tutti, ma sa tenere un segreto.

Ecco perché del teatro ci si può fidare. E gli uomini incarcerati lo hanno capito anche quest’anno.

E tutte queste storie, in parte loro, in parte no, in parte vere e in parte false – autentiche perciò – tutte queste storie, sono state trasformate in una sorta di piccolo poema epico, metafora dei loro vissuti.

Ciascuno si è riconosciuto nella storia raccontata al pubblico, e il pubblico ha colto l’intensità delle emozioni che in quel momento gli attori offrivano.

E ogni storia poteva essere quella dell’uomo che la narrava. Ma così non è stato, perché nessuno poteva sapere dove iniziava il vero e dove il falso: non era questo l’obiettivo.

Non si voleva spiattellare allo spettatore cose che non lo riguardavano: problemi personali di uomini incarcerati, ad esempio… “Che voler ciò udire è bassa voglia!”.

Ma offrire tracce, segni di una mappa da decodificare. Una mappa su cui era stata tracciata, con cura e con pazienza, una parte dell’anima dell’uomo colto mentre scivola lungo le sponde di un viaggio avventuroso, a tratti devastante…

E la bellezza che ognuno ha dentro, ad un tratto è esplosa in faccia al pubblico.

E ha fatto a tutti un gran bene.

Andrea Damarco

Aosta , 9 agosto 2014

 

La compagnia degli uomini

Spesso alle donne piacciono gli uomini. Le ragioni, se togliamo l’imprinting paterno e le alchimie ormonali, restano misteriose. La cultura patriarcale nella quale siamo cresciute ci spinge ad apprezzare, degli uomini, la solidità, la forza fisica e di carattere, l’autorevolezza di pensiero, le capacità decisionali. A volte tolleriamo e perfino giustifichiamo atteggiamenti e comportamenti che di queste virtù virili tradizionali sono un surrogato o addirittura una perversione: arroganza, smania di protagonismo, fino alla violenza. Eppure c’è di meglio, negli uomini: sentimenti, intuizioni, profondità, attenzione. 

Lo ha potuto constatare chi, il 7 agosto scorso, ha assistito allo spettacolo “Nessuno” che ha avuto luogo nel cortile interno del carcere di Brissogne. Otto giovani uomini detenuti hanno messo in scena, grazie alla regia sapiente e partecipe di Andrea Damarco, uno spettacolo che ha profondamente commosso: il pubblico presente gli ha tributato una vera standing ovation. Per molti minuti gli spettatori, scattati in piedi dopo l’uscita di scena dell’ultimo narratore, hanno applaudito gli attori e il regista accorso ad abbracciarli e a ballare con loro una gioiosa, liberatoria tarantella. 

Uomini con la valigia in questa “azione teatrale rinchiusa per riconsiderare il viaggio”, tutti meno uno che non aveva – ha detto – né radici, né ricordi, né affetti da portare con sé. Ci hanno raccontato, ciascuno a suo modo, ciascuno nella propria lingua, la storia del viaggio, vero o ideale, che li ha portati qui, in questa terra che abbiamo la cattiva abitudine di chiamare “nostra”. Ne è nato un testo plurilingue a forte impatto emotivo. Vedere esposti così, nella semplicità di parole cercate con cura e pazienza, il dolore e i sogni di questi giovani, è stato come vedere tutto insieme il dolore e i sogni del mondo intero. Perché i loro dolori e sogni sono identici ai nostri: l’amore per i propri cari, il dolore di esserne separati, l’affetto per un posto che chiamiamo casa o patria, la nostalgia per ciò che abbiamo perduto, il desiderio di una vita felice. Pare impossibile che ci voglia uno spettacolo teatrale in un carcere per insegnarci questa rudimentale, basilare eguaglianza tra noi umani. 

Questa compagnia di uomini ha fatto una cosa bella, una cosa importante, una cosa che suscita e merita gratitudine. Dietro, naturalmente, c’è il lavoro delle volontarie e dei volontari dell’AVVC e c’è la disponibilità della casa circondariale, di chi ci lavora e di chi la dirige. 

Maria Pia Simonetti